La storia è arcinota. Il 15 settembre del 2008, intorno all’una del mattino, Lehman Brothers annunciava il fallimento. Quella data è entrata convenzionalmente nella storia come l’inizio della grande crisi economica, la peggiore che il mondo avesse conosciuto. Fino al 2020.
Dodici anni dopo quella crisi sembra nulla rispetto a quella che abbiamo appena iniziato ad affrontare. Ma i caratteri della crisi e il contesto stesso è profondamente cambiato; nei soli ultimi dieci anni il mondo ha conosciuto un progresso tecnologico senza precedenti, che ha portato ad una profonda trasformazione del settore finanziario. La nascita del Fintech ha portato allo sviluppo di nuovi modelli di business, alla creazione di modelli di analisi più accurati e predittivi e a un aumento dei canali di finanziamento per le imprese.
Tutto questo ci rende più preparati ad affrontare la crisi attuale?
Abbiamo chiesto ai fondatori di modefinance, Mattia Ciprian e Valentino Pediroda, di rispondere ad alcune domande.
Dodici anni fa ci siamo trovati impreparati di fronte alla crisi. Non si voleva o non si poteva prevederla?
Ciprian: Esista un'unica legge in finanza: tanto rischio tanto rendimento, tanto rendimento tanto rischio. In quel periodo il rischio era altissimo, sebbene proliferassero i modelli matematici più sofisticati. Quello che è mancato è stato un vero contatto con la realtà, non si è voluto prendere atto della situazione reale.
Pediroda: le avvisaglie c’erano però. Nel 2007, durante la fase di validazione di MORE, il nostro modello di scoring, ci siamo trovati ad effettuare una simulazione su tutte le aziende europee. Analizzando i risultati abbiamo inizialmente pensato che ci fosse un bug del modello sull’Islanda, perché i dati statistici mostravano come le aziende islandesi avessero un’alta probabilità di default. Ma il problema non era del modello: la maggior parte delle aziende presentavano una bassa liquidità e debiti finanziari elevati. Alla fine uno dei primi stati ad avere subìto una forte crisi finanziaria è stata proprio l’Islanda.
La crisi che stiamo vivendo ora ha caratteri diametralmente opposti. Siamo più preparati oggi ad affrontare le conseguenze?
P: Direi di sì. Al di là di giudizi sull’operato, la politica si è subito attivata, non solo a livello nazionale ma anche a livello europeo. Resta il fatto che è molto difficile prevedere se funzionerà o meno, anche perché una cosa è mettere i fondi a disposizione, un’altra è capire come debbano essere spesi. In ogni caso, a livello internazionale c’è stata sin da subito una maggiore cooperazione.
C: Anche le aziende sono più pronte. Con Basilea II e ancor più con Basilea III, si è posta una maggiore attenzione alla salute delle imprese e le stesse hanno in larga parte preso consapevolezza della necessità di monitorare costantemente i punti di forza e di debolezza. Questo sistema ha finito per premiare le imprese più attente all’autovalutazione, che si sono dimostrate più stabili e più resilienti. Ad oggi possiamo dire che, complessivamente parlando, la posizione delle imprese sia più solida.
Anche i modelli di valutazione del rischio di credito sono cambiati nel frattempo?
C: Totalmente. All’epoca nessuno si poneva il problema di quali dati venissero utilizzati per la valutazione della salute delle imprese. Si utilizzavano i dati di bilancio, che per loro natura sono storici, ma era un’approssimazione sufficiente. Ora c’è un'attenzione maggiore alla freschezza del dato, di conseguenza anche i modelli si sono evoluti e oggi sono in grado di prendere in considerazione dati diversi, con freschezze diverse. Sono modelli più raffinati, con capacità predittive decisamente maggiori rispetto a solo qualche anno fa. Pensiamo al For-ST, dieci anni fa non sarebbe stato possibile raggiungere il medesimo livello di accuratezza.
P: Basti pensare anche solo alla possibilità di utilizzare dati alternativi. Anche gli stessi modelli non sono più fissi, ma imparano dai dati, si evolvono via via dall’ingresso di nuove informazioni. Una volta scrivevi un modello e quello era. Adesso i modelli sono adattivi, e addirittura potrebbero vivere di vita propria. Non lo si fa perché il controllo umano è necessario per evitare derive impreviste, ma non sarebbe affatto impossibile sviluppare dei modelli del tutto autonomi.
In quest’ultimo decennio il mondo finanziario ha subito una fortissima trasformazione, sia normativa che tecnologica. Che ruolo ha oggi l’industria Fintech nella gestione della crisi?
C: Ci sono due temi. Il primo è la digitalizzazione dei processi, perché in un momento in cui tutto deve avvenire a distanza, anche il rapporto cliente-finanziatore, le realtà Fintech, che nascono già digitali, non hanno le difficoltà di adattamento che invece ha il sistema bancario. Il secondo tema è la rapidità: in situazione drammatiche non si può seguire la strada ordinaria. Molte Fintech nascono proprio con l’intento di velocizzare i processi e dunque l’erogazione del credito, ma raggiungono una scarsa platea in un sistema come l’Italia che è sostanzialmente bancarizzato e dove il primo player è sempre comunque la banca. Quello che il Fintech può fare è aiutare la banca ad essere sempre più veloce e digitale.
P: Di recente stiamo assistendo ad una sempre maggiore collaborazione tra banche e Fintech. L’automatizzazione dei processi è un tema caldo per il mondo finanziario, e può avvenire soltanto con lo sviluppo di tecnologie innovative. In questo le Fintech hanno una marcia in più, perché essendo più piccole e meno vincolate sono in grado di sviluppare più velocemente le tecnologie da implementare all’interno delle banche.
Dopo l’ultima crisi c’è stato una completa revisione della normativa di Basilea che ha portato alla stretta creditizia del sistema bancario. Questa crisi porterà ad un ulteriore aggiornamento della normativa?
C: Mi riaggancio a quanto detto prima, la ponderazione del rischio è fondamentale per capire che rendimento è giusto aspettarsi. Basilea ha giustamente richiesto alle banche di dotarsi di sistemi di ponderazione dei rischi, tali per cui ad un aumento del rischio deve corrispondere una maggiore capitalizzazione a copertura dello stesso. Tuttavia questa strada nel lungo periodo non è perseguibile, le banche devono essere messe nella condizione di cambiare il loro business model. In un periodo di tassi negativi non c’è remunerazione per qualsiasi attività che sia priva di rischio. Quindi delle due l’una: o si da la capacità alle banche di poter operare con minori vincoli per cercare di essere veloci e servire il mercato, oppure queste continueranno a trovarsi tra l’incudine e il martello: se non si assumono rischi non hanno rendimento con i tassi di interesse negativi, dall’altro canto l’assunzione dei rischi comporta una capitalizzazione spesso insostenibile.
Quali sono le prospettive future? Le metodologie di valutazione cambieranno dopo il Covid?
P: Oggi stiamo prepotentemente entrando nel campo delle valutazioni nowcasting, che permettono di conoscere in real-time l’evoluzione della solviblità delle imprese istante per istante. La normativa PSD2, che di fatto apre l’accesso ai dati bancari sui pagamenti, rappresenta una spinta in questo senso, perché consentirà di sfruttare dati aggiornati necessari allo sviluppo di modelli di valutazione del rischio in nowcasting.
C: Oggi c’è ancora molto da fare dove c’è mancanza di trasparenza. Vi sono delle tipologie di aziende dove strutturalmente manca l’informazione ed è necessario colmare la mancanza di dati in questo settore. Le tecnologie sono pronte, ma mancano i dati. La normativa PSD2 apre le porte a nuovi player quali Google, Amazon e Facebook, che i dati invece li hanno eccome. Se il sistema bancario vuole continuare ad essere competitivo, dovrà colmare questo gap molto velocemente.